La banda Mario: L’empatia vinse la paura del diverso – 25 aprile

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La banda Mario: L’empatia vinse la paura del diverso – 25 aprile

Una storia, ancora poca conosciuta, di africani che scapparono dalle prigioni fasciste, grazie all’aiuto degli italiani, per poi unirsi a loro alla resistenza e morire per la liberazione dell’Italia.

LA BANDA MARIO

Sono i partigiani della “banda Mario”, uno dei primi gruppi della resistenza marchigiana. Operante alle pendici del Monte San Vicino, tra San Severino e Matelica, sotto la guida dell’ex prigioniero istriano Mario Depangher.

Uno dei gruppi più eterogenei, una rarità nell’Italia di allora, culturalmente intrisa della cosiddetta “paura del diverso”.

Nelle numerose foto dell’epoca compaiono tutti insieme: italiani, croati, serbi, inglesi, russi, ma anche somali, eritrei ed etiopi.

Un mix di culture, “a very mixed blunch”, come un membro britannico della brigata li definì, unito da uno stesso obiettivo: liberare l’Italia dall’invasione nazifascista.

“Molti giovani italiani che hanno partecipato alla banda Mario crebbero educati secondo il fascismo, quindi con un determinato atteggiamento verso il diverso, verso lo straniero, eppure non hanno avuto nessuna difficoltà, grazie all’empatia, a riconoscere in quegli etiopi, quei somali, quegli eritrei, un fratello e un compagno di lotta.

È una questione di atteggiamento, sono gli elementi esterni che ci permettono di mutarlo.

RESISTENZA MULTIETNICA

Undici in tutto le etnie che presero parte alla lotta guidata da Depangher, lui stesso “straniero”. Nato a Capodistria nel 1897, Mario a 14 anni si era iscritto al Movimento Giovanile Socialista ritrovandosi nel 1932, dopo anni di scontri, scioperi e clandestinità, prima al confino a Ponza, con Sandro Pertini, poi a Ventotene e infine prigioniero a San Severino.

È soprattutto la presenza di uomini e donne nere a caratterizzare la “banda Mario”. Provenivano dalle colonie italiane in Somalia, Eritrea ed Etiopia ed erano arrivati in Italia nel 1940.

“Erano stati portati a Napoli per la Mostra delle Terre italiane d’Oltremare, voluta dal fascismo proprio per mostrare al mondo le proprie conquiste”.

Tra loro c’erano ascari, africani regolarmente inquadrati come corpo militare nelle forze italiane in Africa. Ma anche donne, bambini, persone trasportate in Italia per “far percepire la diversità” e conseguentemente far sentire agli italiani il “senso del proprio dominio”.

L’esposizione, però, ebbe vita breve. All’entrata in guerra dell’Italia, la mostra chiuse i battenti e, dopo alcuni spostamenti, tutti gli africani portati in Italia furono trasferiti nel 1943 come prigionieri a Villa Spada, a Treia.

Alcuni di loro, per necessità, conoscevano un po’ di italiano. Per questo grazie anche agli abitanti della zona vennero a sapere che il re Vittorio Emanuele III era fuggito da Roma.

PARTIGIANI STRANIERI

Furono tre africani, Abbagirù Abbauagi, Scifarrà Abbadicà e Addisà Agà, a dare il via all’esperienza dei “partigiani stranieri”.

Tra la proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre del 1943 e il 25 ottobre dello stesso anno, infatti, i tre fuggirono da Villa Spada. Percorrendo circa 30 chilometri tra strade di campagna e boschi, raggiunsero il San Vicino, per unirsi alla “banda Mario”.

Fondamentale per sfuggire a fascisti e nazisti fu l’appoggio della popolazione che, presumibilmente, guidò i tre verso i nascondigli dei partigiani.

Nessun travestimento, infatti, sarebbe andato a buon fine visto il colore della loro pelle.

L’arrivo di etiopici ingrossò le file della “banda Mario”, che in poche settimane assunse i connotati di battaglione, coltivando ancora di più il carattere multietnico del gruppo.

Secondo diverse fonti, i nuovi arrivati informarono i partigiani che a Villa Spada c’era un posto di sorveglianza. I comandi della banda decisero allora di tentare un’azione, per ‘liberare i prigionieri’ e per ‘impossessarsi delle armi’.

LA BATTAGLIA DI VALDIOLA

L’assalto alla Villa fece guadagnare alla resistenza fucili mitragliatori, bombe a mano, moschetti e rivoltelle, ma anche alcuni compagni partigiani.

Almeno altri 10 africani si unirono al gruppo guidato da Depangher, tra cui anche una donna.

Delle imprese partigiane degli africani del battaglione Mario non si sa molto. Certo è che presero parte a tutte le rappresaglie del gruppo che per 10 mesi fu uno dei più attivi nell’entroterra maceratese.

Tra queste anche la battaglia di Valdiola, tra il 23 e il 24 marzo 1944. Quasi accerchiati da centinaia di tedeschi e fascisti, i partigiani riuscirono ad evitare la dispersione del gruppo continuando i sabotaggi al nemico.

Il pericolo degli africani di Villa Spada fu riconosciuto anche dalla Repubblica sociale italiana, lo stato fascista nato nell’Italia del Nord dopo l’armistizio.

Il ministero dell’Interno, infatti, scrisse dell’importanza di trasferire immediatamente il gruppo di Treia, ricordando che molti stranieri si erano dati alla macchia con i partigiani.

Nonostante le poche testimonianze, però, si sa che molti di loro morirono nel tentativo di liberazione.

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